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“Vivere č comunicare: la lezione di Walter Piludu”, di Silvano Tagliagambe

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“Vivere è comunicare: la lezione di Walter Piludu”, un intervento di Silvano Tagliagambe


Tratto da www.vitobiolchini.it

Sabato 20 dicembre alla Comunità “La Collina” di Serdiana si è svolto un incontro su “Libertà e responsabilità di fronte alla vita e alla morte”, organizzato per rispondere al lucido, coraggioso appello di Walter Piludu, l’ex presidente della Provincia di Cagliari malato di Sla, che ha sollecitato il Parlamento ad affrontare il controverso tema della fine della vita.

Il costituzionalista Pietro Ciarlo, la neuroscienziata Maria Del Zompo, il procuratore della Repubblica Mauro Mura, il gesuita padre Maurizio Teani (preside della Facoltà teologica), il presidente della Commissione Sanità della Camera dei Deputati Pier Paolo Vargiu e il tesoriere dell’associazione “Luca Coscioni” Marco Cappato hanno esposto le loro considerazioni su un tema così delicato in un dibattito teso ed emozionante introdotto e coordinato da don Ettore Cannavera.

Punto focale della discussione è stato il passo della lettera di Piludu in cui egli chiede il rispetto del “diritto inalienabile, di dignità e di libertà, che deve essere garantito a ogni persona” e domanda come potrà rendere operativa la sua volontà di porre fine al “fardello di prolungata, indicibile sofferenza” che egli e i suoi cari sono costretti a subire quotidianamente.

La questione ruota dunque attorno al concetto di persona che, è stato ricordato sia da padre Maurizio Teani, sia da don Ettore Cannavera, è un’entità fondamentalmente relazionale, caratterizzata da un duplice ordine di rapporti, che ne costituisce l’essenza più profonda: con la propria origine e con gli altri. Perché, come ha scritto Bachtin riferendosi alla grande lezione di Dostoevskij, questo grande scrittore “si contrappone a tutta la cultura decadente e idealistica (individualistica), alla cultura della solitudine radicale e disperata.

Egli afferma l’impossibilità della solitudine, l’illusorietà della solitudine. L’esistenza dell’uomo (sia quella esteriore che quella interiore) è una profondissima comunicazione. Essere significa comunicare. La morte assoluta (non essere) è impossibilità di essere uditi, di essere riconosciuti, di essere ricordati. Essere significa essere per l’altro e, attraverso l’altro, per sé. L’uomo non ha un territorio interiore sovrano, ma è tutto e sempre al confine, e, guardando dentro di sé, egli guarda negli occhi l’altro e con gli occhi dell’altro.

È allora non solo legittimo, ma doveroso chiedersi se possa ancora essere considerato pienamente una persona colui che vede fortemente limitata e resa, di fatto, inagibile questa possibilità di tessere relazioni in seguito a una condizione nella quale il corpo è completamente immobilizzato e anche le funzioni vocali sono fortemente compromesse.

Non a caso è lo stesso Piludu ad affermare di non essere afflitto “da fisime suicidarie” e a sottolineare che a tenerlo lontano da questa tentazione, oltre alle sue residue risorse intellettuali, sono proprio la vicinanza di alcune care amicizie e, soprattutto, gli affetti familiari, cioè appunto le poche relazioni che può ancora coltivare, grazie alle quali, egli scrive, “riesco tuttora a trovare un senso alla mia esperienza umana”. Quello che più lo angoscia, allora, è proprio la consapevolezza di essere condannato a perdere completamente – più prima che poi – le proprie funzioni vocali, col risultato di vedere ulteriormente pregiudicate queste relazioni.

È stata dunque una scelta corretta, in sintonia con il messaggio profondo che Walter Piludu ci ha voluto trasmettere, quella di porre al centro del dibattito il tema delle relazioni. A proposito del quale è importante ricordare le stingenti conclusioni di un notevole libro di Derek Parfit del 1984, intitolato, non a caso, Ragioni e persone.

In esso l’autore prende nettamente le distanze dalla convinzione che alla base di ciò che noi chiamiamo la nostra identità e che sentiamo come tale nella nostra vita di tutti i giorni vi possa essere la continuità fisica (altrimenti chi ha subito un trapianto di un organo importante, come ad esempio il cuore, non sarebbe più la stessa persona di prima) o quella psicologica (altrimenti chi cambia, ad esempio, orientamento sessuale dovrebbe diventare per ciò stesso un’altra persona). Egli opta piuttosto per l’idea che a costituire la nostra essenza più intima sia la capacità di stabilire legami e relazioni di vicinanza tra le varie fasi e gli stadi in cui si articolano il vissuto e l’esperienza personale di ciascuno.

Da questo punto di vista la questione della percezione di ciò che siamo come individui può essere vista come il problema dei rapporti tra più stadi-persona, per cui ciò che comunemente chiamiamo «io» risulta essere un processo, un succedersi di eventi (person-stages).

Intesa in questo senso l’identità personale non conosce salti: secondo Parfit, di conseguenza, non è corretto affermare (in termini tutto-o-niente) che c’è o non c’è, che la si possiede oppure no. Essa è, invece, una questione di gradi: fra gli stadi successivi di una stessa persona (fra "me" come sono oggi e un "me passato” o un “me futuro") possono cioè sussistere legami più o meno forti. Possiamo infatti vivere il rapporto tra il mio «io» di oggi e quello di ieri o di domani alla stessa stregua e con le medesime modalità di come viviamo la relazione tra me e un’altra persona qualsiasi.

In questa prospettiva, ciò che chiamiamo «io» non è un’entità singola e indivisibile, ma un soggetto collettivo, proprio come lo è, ad esempio, una famiglia. E come non ha senso dire che “tutti i parenti di una persona sono ugualmente suoi parenti”, così, una volta che si sia convenuto che anche l’«io» è un soggetto collettivo, non pare ragionevole asserire che i nodi che compongono la sua complicata rete debbono essere collegati da legami di uguale peso e importanza.

L’obiettivo da perseguire con il massimo impegno è allora quello di conferire il più alto grado possibile di omogeneità a questo insieme, facendo in modo che tra le sue parti si stabiliscano la massima estensione e il più elevato grado di connessione e di continuità. Solo in questo modo quel particolare soggetto collettivo che è l’«io» potrà acquisire un buon livello di stabilità e un soddisfacente equilibrio.

A essere posta in primo piano, in questo modo, sono la possibilità, la capacità e la forza di una persona di costruire la trama del proprio «io», tessendo legami e un rapporto di continuità tra le varie tappe della propria vita e le varie “maschere” che egli indossa inevitabilmente nel corso di essa, dato che ciascuno di noi propone in genere di sé identità non sempre omogenee. Questa possibilità e capacità sono dunque l’unico strumento di cui disponiamo per non cadere nelle spire della schizofrenia ed evitare di diventare un «io diviso» e frantumato.

Ciò che chiamiamo «persona» è pertanto un’entità diffusa, non localizzata in un ambito ristretto, ma sparsa ovunque, perché è il risultato di molteplici relazioni interpersonali, a corto, medio o ampio raggio: un fascio di legami e di frammenti di esperienze condivise con altre persone, ricombinati in modo nuovo. Proprio questo «fascio di legami», interno ed esterno, ci offre la visione più profonda e penetrante di ciò che vuol dire essere umani.

Questa idea di persona, oltre che dalla filosofia, sembra oggi confermata anche dalle neuroscienze. Non a caso quest’anno il premio Nobel per la medicina è stato assegnato a John O’Keefe e ai coniugi May Britt ed Edvard Moser per la scoperta del sistema di cellule nervose che costituisce una rete, grazie alla quale il cervello dispone costantemente delle coordinate spaziali del luogo in cui si trova e si può quindi orientare.

La struttura di riferimento di questa rete è l’ippocampo, che nei roditori, animali in cui esso è stato studiato in maniera approfondita, ha all’incirca la forma di una piccolissima banana che srotola vari chilometri di connessioni con una potenza di una decina di miliardi di contatti. È proprio grazie a questi contatti che la memoria diventa "nostra" (“Io sono quello che sono”) e che i significati neutri sono personalizzati ed orientati dentro la nostra “forma di vita” e il nostro mondo. Il cuore del sistema cerebrale sembra dunque essere costituito da una struttura di limitatissima estensione ma con un’elevatissima capacità sia di interconnessioni, sia di sensibilità e di reazione anche alle stimolazioni più insignificanti.

Ecco dunque il significato profondo della questione posta da Walter Piludu all’attenzione di tutti. Nel momento in cui sono privato della possibilità e della forza di istituire relazioni con me stesso, nell’ambito del mio vissuto, e con altri, e vengo privato di quella “profondissima comunicazione” interiore ed esteriore in cui consiste l’esistenza umana, l’unico e residuo aspetto per il quale posso ancora essere considerato una persona è la capacità di esprimere un volere, di manifestare il mio libero arbitrio. Possono, gli altri, ignorare e soffocare quest’ultimo tratto distintivo del mio essere uomo senza privarmi della mia dignità e del mio diritto di finire la mia vita essendo ancora, di fatto, una persona, e non una pura parvenza di essa?

Silvano Tagliagambe