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L’altra faccia della crisi migratoria europea: le buone pratiche

L’altra faccia della crisi migratoria europea: le buone pratiche

Impossibile non tenere in conto le intenzioni migratorie e cioè la scelta del paese europeo nel quale i richiedenti asilo desiderano vivere, una volta ottenuta la protezione internazionale, in virtù di legami familiari e prospettive lavorative.

Mercoledi 21 Giugno 2017
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La crisi migratoria europea, che, scoppiata tra il 2013 e il 2014, consolidatasi nel 2015 e nel 2016, senza cenni di attenuazione nel 2017, considerato il numero di prime richieste di asilo presentate nei paesi membri dell’Unione europea (Ue)¹ e quello degli sbarchi sulle coste del Mediterraneo, ha sollevato molte critiche e dubbi sulla capacità dell’Ue e dei suoi stati membri di gestire in maniera unitaria ed efficace l’accoglienza e l’integrazione delle persone in cerca di protezione internazionale.

A partire da novembre 2013, quando, a seguito della morte di centinaia di migranti al largo di Lampedusa, è stata lanciata l’operazione Mare Nostrum, con l’obiettivo di soccorrere i naufraghi e lottare contro i trafficanti di migranti, si è susseguita una serie di misure, da una parte, di natura essenzialmente frammentata, emergenziale e securitaria, come l’Operazione Triton (novembre 2014), per sorvegliare il Mediterraneo centrale, l’Operazione Poseidon (febbraio 2015) per assistere la Grecia e l’Operazione Sophia (maggio 2015) per controllare gli arrivi dalla Libia, le quali hanno dato forte centralità al ruolo (e al budget finanziario) di Frontex, l’agenzia di controllo delle frontiere esterne dell’Ue, dall’altra, di identificazione e ricollocazione dei richiedenti asilo e di esternalizzazione dell’emergenza migratoria, i cui risultati sono, tuttavia, inferiori a quelli programmati. Tra le prime, vi sono i centri di identificazione dei richiedenti asilo, i cosiddetti “hotspot” (maggio 2015), in Italia e Grecia, gli schemi di reinsediamento in Europa (luglio 2015) delle persone in cerca di protezione internazionale direttamente dai paesi di origine e gli schemi di ricollocamento (settembre 2015) dei richiedenti asilo fra i paesi europei attraverso un sistema di quote. Un esempio di schema di ricollocamento è l’Accordo Ue-Turchia (maggio 2016), che ha stabilito che per ogni siriano giunto irregolarmente in Grecia e rimpatriato in Turchia, un altro sia ricollocato in un paese dell’Ue. Al di là delle critiche che sono state sollevate sulla legittimità di tale accordo, in quanto si ritiene che esso violi principi fondamentali, come il rispetto della solidarietà e della protezione degli esseri umani, il secondo paragrafo dell’Articolo 13 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948 – secondo cui “ognuno ha il diritto di lasciare il proprio paese, incluso il suo, e di ritornare nel proprio paese” – e quello di stato terzo sicuro, cioè la garanzia che la Turchia rispetti gli standard internazionali sulla protezione dei rifugiati, l’accordo Ue-Turchia ha ridotto effettivamente l’arrivo di siriani verso l’Europa. Non ha, tuttavia, eliminato la crisi siriana né il crescente numero di siriani che ricevono la protezione dell’UNHCR nella stessa Siria, in Turchia e in altri paesi vicini come Libano, Giordania, Iraq ed Egitto. Un esempio di esternalizzazione della questione migratoria è rappresentato dal Migration Compact (aprile 2016) indirizzato dall’allora Primo Ministro italiano Matteo Renzi a Jean-Claude Juncker e Donald Tusk, presidenti rispettivamente della Commissione e del Consiglio europei. Esso suggeriva l’introduzione di una politica multilaterale di cooperazione e sviluppo con i paesi di origine e di transito dei migranti e la possibilità per le task force militari europee di intervenire direttamente nella gestione della migrazione e dei rimpatri nel continente africano, rafforzando le misure di controllo delle frontiere esterne e di riduzione dei flussi verso l’Europa. Recentemente (gennaio 2016) la Commissione europea ha evocato un maggior impegno per la lotta al traffico di migranti: appello che è stato strumentalizzato da alcune forze politiche italiane che hanno lanciato alle ONG impegnate nel salvataggio dei migranti in mare l’odiosa accusa di collusione con i trafficanti. Nel solco della prassi della esternalizzazione del controllo delle frontiere, si inserisce anche l’accordo firmato dal premier Gentiloni e dal presidente del Niger Mahamadou Issoufou (maggio 2017) con cui, a fronte del sostegno finanziario di 50 milioni di euro, viene rafforzata la cooperazione militare in un punto strategico di origine dei flussi migratori, che, passando per il Niger, si dirigono in Libia e poi giungono in Europa.

Una proposta politica: la legalizzazione dei flussi migratori

Quello che, a nostro avviso, è mancato nella serie di misure adottate per fronteggiare la crisi europea dei rifugiati è la proposta di riforma della Convenzione di Dublino, la quale attualmente stabilisce che il paese responsabile della richiesta di asilo sia quello nel quale il migrante giunge per la prima volta, aggravando di fatto la posizione dell’Italia e della Grecia, principali punti di accesso all’Ue. E’ difficile non essere banali, ma una riforma dell’asilo efficiente dovrebbe distribuire più equamente i richiedenti asilo fra i paesi dell’Ue (la cosiddetta politica del “burden sharing”), attraverso un sistema di quote di accoglienza che siano effettivamente proporzionali alle caratteristiche demografiche, di sviluppo economico e di capacità di accoglienza dei paesi membri, ma soprattutto che tengano in considerazione le intenzioni migratorie dei suoi protagonisti e cioè la scelta del paese europeo nel quale i richiedenti asilo desiderano vivere, una volta ottenuta la protezione internazionale, in virtù di legami familiari e prospettive lavorative. Basterebbe rispettare di più il concetto di armonizzazione dello status di rifugiato e pretendere che ognuno faccia la sua parte, secondo le indicazioni dell’Ue. Queste indicazioni dovrebbero includere la realizzazione di canali umanitari e la riapertura del canale della migrazione economica: in altre parole, la legalizzazione dei flussi migratori, consapevoli del fatto che la clandestinità si genera laddove viene stabilita la legittimità o l’illegittimità dell’attraversamento di una frontiera. Questa riflessione dovrebbe riguardare i territori e le diplomazie sia di origine che di destinazione di tali flussi, così da evitare che i migranti ricorrano al pericoloso canale della migrazione umanitaria e, di conseguenza, ai trafficanti di esseri umani.

Le buone pratiche di accoglienza e integrazione dei rifugiati

Il dibattito sulla crisi della solidarietà e della cooperazione europea ha offuscato, tuttavia, il fatto che un’accoglienza e un’integrazione dei rifugiati esiste ed è quella che avviene nelle città, nei piccoli comuni e nelle campagne dei paesi europei, dove a programmi personalizzati per la (ri)acquisizione dell’autostima (viene dato per scontato che ai rifugiati debbano essere forniti servizi dignitosi per il soddisfacimento delle necessità primarie, così come per l’ottenimento dei documenti) e l’integrazione sociale e lavorativa dei rifugiati nelle società di destinazione – attraverso corsi di lingua, corsi di formazione, tirocini, collaborazioni lavorative, come opere di manutenzione e agricoltura sociale – si accompagnano ricadute positive per la comunità di destinazione. In Italia, ad esempio, sono molti i casi dei borghi, delle aree montane e marittime, che destinate allo spopolamento e al declino demografico ed urbano, sono state invece ripopolate e riqualificate grazie alla presenza dei rifugiati, (ri)attraendo popolazione, turismo ed investimento economico, come, ad esempio, è avvenuto nei comuni di Coriano, in provincia di Rimini, e Condofuri, Riace e Stignano, in provincia di Reggio Calabria, dove il contributo della popolazione straniera alla popolazione residente totale è significativo, come è mostrato nella tabella 1.

Queste considerazioni sono emerse durante il tavolo tecnico “Acogida e integración de migrantes y refugiados. Un desafío de buenas prácticas en las politicas municipales”, che si è svolto presso l’Istituto Italiano di Cultura di Buenos Aires lo scorso 4 maggio, nell’ambito delle attività della Unesco Chair “Population, Migrations and Development” della Sapienza Università di Roma. Gli esempi di accoglienza e di integrazione a livello municipale illustrati durante il tavolo tecnico dimostrano che spesso non esiste corrispondenza fra politiche e discorso politico (restrittivi ed escludenti), da una parte, e pratiche (solidali ed inclusive), dall’altra, confermando che l’integrazione è sempre, ancorché complesso, un processo bidirezionale, che avviene dal basso, che coinvolge positivamente sia la popolazione straniera che la popolazione nativa e che in Italia, come in Argentina, coltivare la terra o frequentare un corso di lingua per stranieri contribuisce a sentirsi “una parte accettata della società”². A decisori ed analisti politici che si domandano se le dimensioni che ha assunto la richiesta di protezione internazionale sia sostenibile per i paesi europei, si potrebbe rispondere illustrando il successo delle buone pratiche a livello delle politiche municipali: il che rafforza l’importanza di applicare il principio della sussidiarietà nell’ambito della cooperazione politica europea.

¹ Eurostat Statistics Explained, Asylum statistics.

² Penninx, Rinus. 2004. Integration Processes of Migrants in the European Union and Policies Relating to Integration. Presentation for the Conference on Population Challenges, International Migration and Reproductive Health in Turkey and the European Union: Issues and Policy Implications, held in Istanbul, October 11/12, 2004.

Di Raimondo Cagiano De Azevedo e di Angela Paparusso

Fonte: http://www.neodemos.info/articoli/laltra-faccia-della-crisi-migratoria-europea-le-buone-pratiche/